Di Luca Meringolo
Giuseppe Tomasini, ex Libero di Brescia, Reggina e Cagliari che con la squadra rossoblu milita 9 anni, conquistando lo scudetto nella celebre stagione 1969/70.
L: Come si è avvicinato al Cagliari Giuseppe Tomasini?
T: “Avevo il calcio nel sangue. Nacqui in un paese della provincia di Brescia, Palazzolo sull’Oglio, da una famiglia molto povera. Mio padre a 65 anni venne licenziato e io a 14 anni andai a lavorare in fabbrica. In quel periodo giocavo già in promozione. A 16 anni andai a Brescia, l’anno successivo esordii in Serie B e a 20 anni debuttai in Serie A, con Vicini allenatore. Dopo l’esperienza al Brescia venni acquistato dal Cagliari. Fu Scopigno a volermi, dato che, in quel periodo, lui era stato osservatore dell’Inter e mi notò, quindi, quando andò ad allenare il Cagliari mi volle con sé”.
L: Aveva qualche idolo da bambino?
T: “Sì, il mio idolo era Rivera e riuscii anche a giocare contro di lui.”.
L: Cosa le hanno lasciato le esperienze di Brescia e Reggio?
T: “Il Brescia mi diede in prestito alla Reggina in Serie B e qui disputai due stagioni. Il mio allenatore fu Maestrelli, che teneva moltissimo a me. Terminati i due anni con la Reggina, lo ringraziai per quello che aveva fatto per me. Lui mi diede il merito per quello che ero riuscito a fare. Da notare che essendo in prestito, lui avrebbe potuto non farmi giocare e invece mi impiegò tanto in campo. Tornai a Brescia e debuttai in Serie A. Ricordo che in quella stagione, le cose non andarono bene e a metà campionato avvisai il Presidente che la stagione successiva non avrei voluto giocare in Serie B. Retrocedemmo e mi vendette al Cagliari”.
L: Come ha contribuito Maestrelli nella sua formazione?
T: “Maestrelli era un grande allenatore e lo dimostrò alla Lazio vincendo lo Scudetto. Lui venne a vedermi quando giocavo nella squadra De Martino del Brescia all’età di 16 anni, precisamente durante una sfida contro l’Inter e giocai bene. Poi alla Reggina ci fu l’infortunio di uno stopper titolare e allora mi aggregai alla squadra amaranto, a partire dal mese di novembre. Arrivammo quarti quella stagione. Poi, dopo un’altra stagione, venni richiamato da Vicini al Brescia”.
L: Prima di approdare al Cagliari, lei partecipa con la maglia della Nazionale ai giochi del Mediterraneo, vincendoli tra l’altro. Cosa ricorda di questa fantastica esperienza?
T: “Ricordo tutto. Fui l’unico calciatore di Serie B ad essere convocato, mentre tutti i miei compagni giocavano già in Serie A. Andai con molto entusiasmo e riuscimmo a vincerli nella finale contro la Francia”.
L: “Nell’estate del 1968 le viene comunicato il trasferimento al Cagliari. Quale fu la sua prima reazione?
T: “Ero già stato a Cagliari, giocando con la maglia del Brescia e la città non mi piacque. Non volevo giocarci e il Presidente mi disse di pensarci una settimana e poi avrei smesso di giocare a calcio. Io non potevo fermarmi, ero all’inizio della carriera. Avevo già conosciuto Riva in precedenza e lui mi convinse ad andare al Cagliari, descrivendomela come una bella squadra e mi disse che mi sarei trovato bene”.
L: A Cagliari incontra Scopigno. Come lo descriverebbe come allenatore?
T: ” È stato uno dei più grandi allenatori che io abbia mai conosciuto. Capiva di calcio e sapeva come schierare gli uomini in campo. Fu uno dei primi a capire che i calciatori sono esseri umani. Non c’è bisogno del ritiro per farli rendere, ma devono essere responsabilizzati. Lui comprese anche che, in una terra come la Sardegna, nella quale impera il caldo, nel mese di agosto non era necessario fare grandi allenamenti. Attraverso allenamenti graduali noi arrivavamo in forma a Novembre e poi rendevamo fino alla fine della stagione. Non era facile gestire uno spogliatoio con grandi calciatori, ma lui ci riuscì grazie alla sua personalità. Quando parlava tutti lo ascoltavano”.
L: Nella stagione 1969/70 il Cagliari conquistò lo scudetto. Cosa ha significato per quella squadra conquistare questo importante traguardo?
T: “Le basi dello Scudetto vennero già poste nel 1964, con gli arrivi di Greatti e Riva. Poi dal 1968 in poi arrivammo io, Albertosi, Gori, Zignoli Brugnera, Domenghini a completare l’intelaiatura della squadra e questo ci portò alla vittoria del campionato. Quando si dice che uno scudetto a Cagliari vale di più di 10 conquistati dalla Juventus è vero. La stagione precedente arrivammo secondi, ma i poteri forti del calcio ci fecero qualche malefatta. Nel 1969/70 eravamo troppo forti, da notare che nella Nazionale Italiana giocavano 6/7 calciatori del Cagliari e non potevano farcelo perdere. Fino a quel momento la Sardegna era poco conosciuta e veniva ricordata per il banditismo. Fummo una grande squadra e l’amicizia che ancora regna tra di noi ne è la testimonianza. Abbiamo vinto contro tutti”.
L: Quale fu il segreto del Cagliari per vincere quello scudetto?
T: “La stagione precedente, probabilmente, giocammo meglio del 1970. In questa stagione andammo subito in testa e ci rimanemmo fino alla fine. Si era creata dentro di noi una grande convinzione. Quando giocammo a Bari, verso la fine del girone d’andata, Scopigno ci disse: “Se oggi non perdiamo, vinciamo il campionato” La stagione precedente forse eravamo ancora più forti, data la presenza di Boninsegna, ma non avevamo ancora quella convinzione che invece ci fu nel 1970″.
L: Il giorno prima della sfida, in casa della Juventus, lei è infortunato e prepara un telegramma per Riva. Qual era il contenuto di questo telegramma?
T: “Lui non raccontò immediatamente questa vicenda, ma ne parlò alla stampa molti anni dopo. Gli scrissi di vincere anche per me. Sapevo che lui era il più forte e che poteva trascinare la squadra alla vittoria. Lui mi disse che ovviamente non c’era solo lui, ma anche gli altri. Inoltre, io, Riva, Nenè e Zignoli facemmo tutta la vita sportiva insieme. Certe volte in base alle partite al nord ci trovavamo a Palazzolo sull’Oglio, oppure a Leggiuno. Sottolineo anche che Riva fu mio testimone di nozze, questo fa capire la grande amicizia che c’è tra noi. Se era in forma un gol lo faceva sempre. Non ho mai visto un attaccante così forte. Inoltre, si allenava ore e ore a tirare in porta. Su 10 tiri, almeno 8 volte centrava la porta e quasi sempre segnava”.
L: Il 12 aprile del 1970, Cagliari-Bari, giorno della conquista dello Scudetto. L’entusiasmo era talmente alle stelle che, addirittura due pregiudicati vennero allo stadio a seguire la partita e vennero arrestati. Cosa ricorda di questo avvenimento?
T: “Sì, ricordo tutto. Questi due dovevano essere condotti in carcere prima della partita. Io non giocai perché ero ancora infortunato. Ricordo che Riva, Walter Chiari, io e Greatti convicemmo i carabinieri a fargli vedere la partita. Loro accettarono, li tennero vicino (c’erano 5/6 carabinieri) e poi finita la partita li condussero in carcere. Uno di questi due latitanti lo conoscevo perché abitava dove io possedevo il distributore di benzina. Mi si avvicinò, si presentò e mi chiese un biglietto per una gara di Coppa italia tra il Taranto e il Cagliari e io glielo procurai”.
L: Quando arrivò nella squadra la consapevolezza di poter conquistare lo Scudetto?
T: “Andammo subito in testa, ma tra di noi non si nominò mai la parola scudetto. Però notando che le partite le vincevamo e prendevamo pochi gol, Scopigno a Bari ci disse quello che le ho raccontato prima. Quindi affrontammo il girone di ritorno, con la consapevolezza di poter vincere il campionato”.
L: Quanto fu importante l’approdo di Domenghini dall’Inter?
T: “Tutti furono importanti ovviamente. Domenghini era uno in grado di giocare e correre per 90 minuti e arrivava dalla “Grande Inter”, nella quale aveva vinto tutto quello che c’era da vincere. Certamente la squadra quando arrivò lui era già forte e tutti insieme riuscimmo a vincere lo Scudetto”.
L: Gigi Riva, cosa può dire di lui come uomo e come fuoriclasse?
T: “Il calcio finisce e poi rimane l’uomo. Non serve a nulla essere grandi calciatori se non si è grandi uomini. Riva è stato il più grande goleador d’Italia, ma è stato anche un grande uomo. Non si è mai fatto acquistare da nessuno, nonostante potesse andare a giocare in tutte le squadre del mondo. È rimasto in questa terra povera, ma nella quale ci siamo trovati tutti benissimo. Non era interessato alle pubblicità e a tutto il resto, lui ha sempre giocato per la passione verso la maglia, sacrificando una gamba in Nazionale. Lui era il nostro condottiero e noi lo seguivamo. Poteva fare tutto quello che voleva, ma è sempre stata una persona seria, umile e corretta verso tutti gli allenatori e tutti i suoi compagni. Una persona da seguire e da imitare”.
L: Ancora oggi molti dibattono per chi fu il più forte tra Albertosi e Zoff. Secondo lei chi è stato il migliore?
T: “Io ho sempre avuto rispetto di Dino, perché è stato un grande portiere. Ma Albertosi rispetto a tutti gli altri portieri riusciva ad evitare dei gol praticamente fatti. Spesso mi giravo credendo che subisse gol e invece riusciva a neutralizzare le conclusioni. Ricordo con la Juventus, un’azione in cui Anastasi scambiò palla con Haller e arrivò a tre metri da lui. Albertosi riuscì a neutralizzare il tiro con il piatto del piede. Un’altra sua capacità era quella di riuscire a partire sempre con un secondo d’anticipo rispetto all’attaccante. Inoltre, lui osservava la posizione del piede dell’attaccante avversario, in modo da poter scegliere come posizionarsi nella porta per parare il tiro. Albertosi è stato uno dei portieri più forti di tutti i tempi. Se Zoff era un grandissimo portiere, lui era un fuoriclasse”.
L: È vero che la cena dello Scudetto terminò con una gara delle torte in faccia?
T: Sì. Il tutto si verificò in un ristorante di Cagliari, a Corsaro. Eravamo quasi al termine della cena e arrivata questa torta, Riva ci mise le mani di dentro e da lì cominciò il tutto. Abbiamo fatto dei danni non indifferenti, infatti il Cagliari ha dovuto pagare. Ma eravamo felici e contenti. Non c’è stata la fine della cena, perché poi andammo via tutti”.
L: Coppa dei Campioni 1970/71. Quanto ha pesato l’infortunio di Riva nel cammino del Cagliari?
T: “Ha inciso al massimo. Il nostro lavoro veniva realizzato da lui. Mancando Riva, la squadra non poteva finalizzare le azioni. Secondo me con Riva saremmo andati avanti in Coppa dei Campioni. Vincemmo 2-1 in casa contro l’Atletico Madrid. A Madrid con Riva probabilmente realizzavamo 1/2 gol. Pazienza, la Sardegna ha avuto 4 partite di Coppa dei Campioni. Anche in Campionato partimmo bene, eravamo in testa, ma l’infortunio di Riva si fece sentire”.
L: Cosa è mancato al Cagliari per vincere un altro scudetto?
T: “Bisognava acquistare dei calciatori, perché molti erano in là con l’età. Non siamo a Milano o Torino con vantaggi arbitrali. Certamente non avevamo i soldi necessari per poter acquistare quei calciatori in grado di darci una mano per lottare”.
L: Nel 1973 il Cagliari sta andando a giocare una partita contro il Napoli, ma il pullman rischia di prendere fuoco. Voi riuscite ad uscire in tempo per fortuna, ma cosa ricorda di questo episodio?
T: “Ricordo che c’era Fabbri come allenatore. Ci stavamo dirigendo verso Napoli, partendo da Roma e da dietro vedemmo del fumo. Chi era seduto davanti non credeva che fosse vero, ma ad un certo punto ci mettemmo ad urlare e riuscimmo ad uscire dal pullman. Lasciammo i bagagli a bordo e ricordo che Fabbri dimenticò una valigetta sul pullman e volle risalire a prenderla. Gli dicemmo di tutto perché non valeva la pena rischiare la vita per una valigetta. Poi ovviamente ci venne ripagato tutto. Poi tornammo a dormire a Roma e il giorno dopo ci dirigemmo a Napoli”.
L: Lei successivamente divenne anche vice-allenatore. Cosa ha significato cambiare ruolo?
T: “Non volevo fare l’allenatore, infatti mi ero ritirato da calciatore. Ma Toneatto ci teneva a me, mi chiese una mano e quindi mi convinse a diventare vice-allenatore. Quando mi presentai in ritiro non sapevo dove nascondermi. Erano tutti miei ex compagni, con i quali avevo giocato l’anno prima”.
L: Un suo ricordo su alcuni suoi ex compagni di squadra, che purtroppo ci hanno lasciato troppo presto: Martiradonna, Nené, Zignoli e Mancin.
T: “Erano grandi amici. Come già detto io e Riva con Nené e Zignoli stavamo sempre insieme. Mancin era un bravo ragazzo. Erano persone con le quali abbiamo condiviso tutta la nostra carriera. La vita spesso è ingrata. Loro potevano vivere fino a 100 anni, purtroppo non è stato così”.
L: Cosa rappresenta per voi dello Scudetto oggi la Sardegna?
T: “Nessuno voleva venirci, eppure su 15 membri di quella squadra, 8 sono rimasti a vivere qui. La Sardegna è una terra meravigliosa, se vieni preso a ben volere dalla gente, ci rimani a vivere per tutta la vita. Ci trovammo benissimo e le persone sono state generose con noi”.
L: Chi fu l’avversario più difficile da marcare?
T: “C’erano grandi calciatori come Mazzola, Amarildo, Sormani, Mora, Claudio Sala, Peirò, ma quello che a noi dava più fastidio era Anastasi. Non sapevi mai se andasse a destra o sinistra. La sua imprevedibilità lo rendeva difficile da anticipare. Io e Niccolai cercavamo di bloccarlo da entrambi i lati”.
L: Com’è cambiato il ruolo del difensore rispetto ai suoi tempi?
T: “Oggi giocano in linea ed è molto più facile. Prima si marcava di più, oggi di meno giocando a zona. C’era il Libero che comandava la difesa, come ad esempio facevo io. All’epoca subimmo 11 gol in 30 partite, oggi si subiscono più di 2/3 gol a partita. E’ cambiato tutto. Oggi non si tira mai in porta, si va sempre sull’esterno per crossare. All’epoca Riva arrivava davanti la porta e tirava anche da fuori area, così come Altafini, Sormani e tanti altri. Si andava avanti in orizzontale e non in verticale. Oggi si fanno tantissimi passaggi indietro al portiere, per poi saltare un uomo con 3/4 passaggi. Invece prima tutti puntavano l’uomo e lo saltavano come Sala, Anastasi, Mora, Causio. Oggi forse solo Cuadrado salta l’uomo. Nell’epoca attuale vai in palestra, ti sistemi il fisico e puoi giocare in Serie A. Prima per giocare in Serie A dovevi essere bravo e prima di arrivare nella massima serie, dovevi aver giocato in Serie B, a meno che tu non fossi un talento straordinario. Mancini convoca calciatori con 1/2 presenze in Campionato, io, per essere convocato in Nazionale ed essere preso in considerazione, ho dovuto disputare 3 campionati ad alto livello. Gli stranieri arrivati hanno tolto il posto a giovani che potevano giocare e le non qualificazioni al Mondiale confermano questo. Ci sono troppi stranieri in Italia”.
L: Cosa ne pensa del progetto di Roberto Valentino di rifare i Campionati del passato nel virtuale?
T: “Per me è un qualcosa di grande. Roberto Valentino è una persona intelligente che sa fare le cose. Credo che la Rai o altri dovrebbero lasciargli spazio per valorizzarlo. Lui è un genio, perché non è facile gestire tutto quello che fa. Devi avere qualcuno per arrivare, purtroppo”.
L: Com’è stato l’incontro tra Roberto Valentino e Gigi Riva?
T: “Ero presente. Riva lo ha ringraziato. Io e Alessandro Camba, il segretario degli ex rossoblu del Cagliari abbiamo portato Roberto Valentino a casa di Gigi Riva, il quale lo ha preso in considerazione e ha voluto ascoltarlo. Gigi è una persona che si trova a suo agio con le persone umili e amichevoli come Roberto Valentino, non con quelle cha hanno la puzza sotto al naso. E’ stato un bell’ incontro, che ha rappresentato una soddisfazione per lo stesso Roberto Valentino”.
L: Quale consiglio darebbe ai giovani che vogliono avvicinarsi al mondo del calcio?
T: “I giovani devono fare grandi sacrifici, non essere presuntuosi. Serve astinenza e si deve mangiare bene. Tutto questo è necessario per arrivare a competere ad alti livelli. Bisogna creare all’interno della squadra una grande amicizia, come eravamo noi, altrimenti non si vince niente. Serve migliorarsi tutti i giorni, con il pallone tra i piedi. Oggi però ci sono tante tentazioni per i giovani. Ai tempi andavo a lavorare dalle 6.00 alle 14.00 in fabbrica e poi andavo ad allenarmi con il Brescia. Facevo grandi sacrifici, perché volevo giocare ad alto livello. I miei figli, ad esempio, non li avrebbero mai fatti”.
Ringraziamo Giuseppe Tomasini per la grande cordialità e disponibilità.