di Luca Meringolo
Intervista a tu per tu con uno dei migliori attaccanti italiani che hanno calcato i campi della Serie A negli anni 90 e 2000. Igor Protti in carriera è stato protagonista a suon di gol con le maglie di Rimini, Livorno, Virescit, Messina, Bari, Lazio, Napoli e Reggiana. In ogni piazza in cui ha giocato, ha lasciato sempre un grande ricordo. Una staffilata dai 20 metri a fil di palo, questo il marchio riconoscibile di molte delle sue segnature. 651 partite disputate in carriera, tra tutte le categorie, condite da ben 248 gol. È insieme a Dario Hubner, l’unico giocatore ad ottenere il titolo di capocannoniere in Serie A (con la maglia del Bari), in Serie B e in Serie C1(con il Livorno).
L: Come si è avvicinato al calcio?
P: “Il calcio è sempre stata una mia passione fin da piccolo. Vengo da una generazione diversa, in cui prima di poter giocare a calcio in maniera seria e organizzata bisognava aver compiuto almeno 10 anni. Oggi invece si può cominciare prima nelle varie scuole calcio. Io avevo questa passione e mi regalavano i palloni. Ricordo ancora che me lo portavo anche a letto a dormire con me. Mi allenavo da solo in garage a fare i palleggi e a tirare in porta, la quale era la serranda del garage. Mi fecero passare per più grande e all’età di 8 anni venni iscritto alla mia prima squadra che si chiamava “Gladiatori” e da lì passai alle giovanili del Rimini”.
L: È vero che il suo idolo da bambino era Gianni Rivera?
P: ” È vero. Provenivo da una famiglia in cui tutti erano milanisti e all’inizio giocavo da centrocampista. Il mio riferimento era lui, con la maglia numero 10, il mio numero preferito, oltre ad essere quello indossato in tutte le squadre di Serie A, nelle quali ho giocato”.
L: Cosa ricorda del suo debutto con il Rimini?
P: “Momento di grande emozione, che io ho vissuto come un punto di arrivo. Da bambino entravo in quello stadio sulle spalle di mio padre. Successivamente sui 13/14 anni facevo il raccattapalle. Il mio esordio nel Rimini rappresentava la realizzazione di un sogno, con il passare del tempo mi resi conto che quello, invece, fu un punto di partenza. L’esordio fu la prima, per fortuna, di tante altre partite”.
L: Il primo triennio a Livorno, cosa le ha lasciato quel periodo?
P: “Fu la mia prima esperienza fuori casa e da lì cominciai a pensare di poter diventare un calciatore professionista. Mi innamorai di Livorno immediatamente, sia come città che come tifoseria. La storia del Livorno era stata straordinaria nel primo dopoguerra e poi si era un po’ persa. Avevo la caratteristica di innamorami di quelle squadre che in passato avevano avuto delle difficoltà. C’era l’idea di aiutare chi aveva sofferto tanto e gioito poco. Dopo le prime tre stagioni avevo già l’idea che un giorno sarei tornato per dare una mano, per arrivare in categorie migliori, rispetto a quelle cui era abituato il Livorno”.
L: Quanto è stata utile l’esperienza maturata al Virescit?
P: “Fu un’annata particolare. Dovetti andare via da Livorno perché la società aveva delle difficoltà economiche. Io ero giovane e avevo fatto molto bene e avevo mercato. Con i soldi della mia cessione al Virescit, il Livorno riuscì a disputare anche il campionato successivo, ma purtroppo fallì appena finiti i soldi ricavati dalla mia vendita. Il Virescit era una squadra particolare, essendo la seconda compagine di Bergamo, e giocavamo il sabato pomeriggio davanti a 200 persone. Era una realtà in cui era facile poter crescere dal punto di vista tecnico, però non c’erano pressione e nemmeno grandissimi stimoli. Onestamente mi sono sempre innamorato e sono stato amato dalle piazze in cui il tifo si fa sentire ed è molto vicino alla squadra”.
L: Nell’estate del 1989 approdò al Messina in Serie B, com’è stato l’impatto?
P: “Quel 1989/90 fu il mio primo anno in Serie B. Debuttai in Coppa Italia, contro il Torino, allo Stadio Celeste e l’impianto era stracolmo. Entrai in campo con la maglia numero 9 di Totò Schillaci, il quale si era appena trasferito alla Juventus. Non dovevo essere io il sostituto, ero giovane e il titolare doveva essere Vincenzo Onorato, ma Francesco Scorsa decise di mandarmi in campo dal primo minuto. La maglia pesava e l’impatto con lo stadio fu incredibile, vibrava tutto e si sentivano i cori “Messina!” “Messina!”. Per fortuna andò tutto bene, vincemmo 2-1 e realizzai 2 gol e da lì furono 3 anni di rapporti spettacolari con città e tifoseria”.
L: Possiamo dire che il trasferimento a Bari è stata un’altra svolta nella sua carriera?
P: “Sì, perché con quella squadra riuscii a conquistare la promozione in Serie A e potei esordire quindi nel massimo campionato. Chi comincia a giocare ha sempre questa speranza di poter giocare in Serie A e Bari non solo mi ha regalato questa possibilità, ma ho ottenuto il titolo di Capocannoniere, cosa che mai sognavo e speravo di poter conquistare. Sono stati 4 anni fantastici, di rapporti che durano da 30 anni, anzi, sembra sempre che diventino man mano più importanti. Oltre il discorso dei gol, delle vittorie e delle sconfitte, rimane il fatto che i tifosi si aspettano sempre determinate cose da un calciatore. Credo di averle realizzate combattendo e lottando e dando sempre il massimo. La gente lo ha capito e ancora oggi sono apprezzato”.
L: Nel 1994/95 c’è il debutto in Serie A, cosa ha significato per lei debuttare nel campionato più difficile del mondo?
P: “In quegli anni il Campionato Italiano era quello più difficile e ambito. Le squadre italiane vincevano le Coppe Europee in maniera continuativa. Non dimentichiamo che quando nel 1995/96 vinsi la Classifica dei Cannonieri, la Juventus conquistò la Coppa dei Campioni, il Parma in quegli anni vinceva la Coppa delle Coppe e da lì a qualche anno vi fu anche la Finale di Champions League tra Milan e Juventus. Tutti i più grandi calciatori del mondo volevano venire a giocare in Italia. Da notare che il campionato era molto più difficile di oggi. Non c’erano 20 squadre, ma 18, con 4 retrocessioni al posto delle 3 odierne. Le possibilità di retrocedere erano molto più alte, purtroppo”.
L: Fra i difensori che ha affrontato, quale ritiene oggi il più forte?
P: “Quando si ha la fortuna di fortuna di giocare così tanti anni, ed è difficile fare dei nomi. Ho avuto degli avversari incredibili come Fabio Cannavaro, Marco Materazzi, Paolo Maldini, Alessandro Nesta, Ciro Ferrara, Kohler, Pietro Vierchowod. All’epoca i difensori si chiamavano così perché difendevano per non prendere gol e non ti lasciavano spazio. Le regole erano diverse all’epoca, oggi si viene ammoniti anche per una trattenuta della maglia. Prima per essere ammoniti, dico scherzando, dovevi mostrare all’arbitro la lastra con la frattura. Il fallo da ultimo uomo non era rosso e anzi, era da fare come intervento. Quando c’era un intervento duro sul pallone non veniva mai fischiato fallo, così come non veniva punito l’intervento in scivolata da dietro. Se venivi strattonato per la maglia non c’era l’ammonizione, ma solo il calcio di punizione. Dentro l’area di rigore c’erano gli abbracci da innamorati, oggi tutti guardano il pallone e si dimenticano degli avversari che fanno gol”.
L: Da avversario quale attaccante la impressionò in quella Serie A?
P: “Mi sono rimasti impressi calciatori come Roberto Baggio, Zinedine Zidane, Roberto Mancini, Gianfranco Zola. Se poi devo fare il nome di due attaccanti, dico Gianluca Vialli e Gabriel Batistuta. Erano due centravanti che lottavano, come piaceva a me, non pensavano solo a fare gol, ma anche a difendere. Faccio questi nomi, ma ne dimentico tanti altri. Poi ho tanti amici e mi dispiacerebbe dimenticarne qualcuno, in tutti i reparti”.
L: Cosa le hanno trasmesso allenatori come Materazzi e Fascetti?
P: “Materazzi è stato un allenatore, per me importantissimo e fondamentale. A Bari lo incontrai per la terza volta in carriera. La prima volta fu a Rimini, quando io esordii a 16 anni e mezzo e poi lo ritrovai anche a Messina. È un allenatore, oltre ad essere una persona alla quale sono molto legato. Fascetti è un uomo e un allenatore con il quale ho avuto un rapporto importante. Diretto e schietto come piace a me. Dice le cose in faccia e non ti fa i sorrisini davanti, per poi pugnalarti alle spalle”.
L: Stagione 1995/96, lei si laurea Capocannoniere a pari merito con Giuseppe Signori. Cosa ha significato per lei questo riconoscimento?
P: “Purtroppo è capitano nell’unica volta in cui una squadra poi è retrocessa dalla Serie A. Certamente fu una soddisfazione personale, ma assolutamente mitigata dal non essere riusciti a raggiungere l’obiettivo, anche se ci venne riconosciuto dalla città il fatto di aver dato tutto come squadra e di aver lottato fino all’ultimo per la salvezza. In quell’annata battemmo tutte le squadre più importanti: 4-1 all’Inter, 1-0 al Milan che vinse lo Scudetto, pareggiando due volte contro la Juventus che vinse la Coppa dei Campioni. Un’annata molto particolare, che mi ha lasciato nell’almanacco della Serie A, a distanza di anni. Se poi vado a guardare con chi sono in compagnia, mi viene la pelle d’oca. Sono l’unico ad aver vinto la classifica cannonieri con una squadra del Sud, ad eccezione degli attaccanti del Napoli, come Maradona, Cavani, Higuain e quest’anno Osimhen. Senza dimenticare il Cagliari di Gigi Riva, anche se è una squadra particolare che rappresenta un’intera isola. Al Sud ho vissuto benissimo e mi sono innamorato della sua gente e della passione di quei tifosi. Sono fiero di aver rappresentato con il mio titolo di Capocannoniere, non solo Bari, ma tutto il Sud “.
L: Cosa mancò a quel Bari per conquistare la salvezza?
P: Quella era una squadra forte. Quando attaccavamo riuscivamo a fare male, però quando difendevamo lo facevamo con meno efficacia. Abbiamo segnato 24 gol io e 12 Kennet Andersson, ma non bastarono”.
L: È vero che dopo quella stagione, lei fu vicinissimo a trasferirsi all’Inter?
P: “Sì, avevo già trovato un accordo con l’Inter. Ma il mio contratto sarebbe stato depositato solo nel momento in cui sarebbe stato ceduto Zamorano, il quale rimase in neroazzurro e io mi liberai da questo accordo”.
L: Esperienza alla Lazio, cosa ricorda di quella stagione?
P: “La prima parte di stagione fu complicata. Faticai ad ambientarmi, ma non solo io. La squadra partì per provare a vincere lo Scudetto, ma si ritrovò a metà campionato nella zona medio-bassa della classifica. Successivamente vi fu il cambio di allenatore e arrivò Zoff. Da lì cominciammo a collezionare risultati consecutivi straordinari, i quali ci portarono a chiudere la stagione al 4° posto. Nella seconda parte di stagione segnai 6 gol, ma uno in particolare, di vitale importanza, quello nel pareggio del Derby di Roma al 92° minuto. Solo questo già rende straordinaria quella stagione”.
L: Si vedeva dagli investimenti, che la Lazio di Cragnotti fosse destinata al successo?
P: “Sì sì. Io tornai alla Lazio i primi 3 mesi della stagione 1998/99 e dico solo che il parco attaccanti, che poi vinse l’ultima Coppa delle Coppe, era formato da Christian Vieri, Marcelo Salas, Alen Bokšić e Roberto Mancini. Questi erano calciatori veramente incredibili e tutti capirono che la Lazio avrebbe costruito un ciclo importante di vittorie”.
L: Alla Lazio giocò con 2 giovani emergenti, Nesta e Nedved. Si vedeva già all’epoca che fossero destinati a diventare grandi Campioni?
P: “Sì Sì, lo erano già. Pavel Nedved arrivò proprio in quella stagione 1996/97, insieme a me. Facemmo 40 giorni di ritiro in Repubblica Ceca. Durante quel periodo fummo compagni di stanza. Ancora non parlava l’italiano, ma condividemmo quell’esperienza dura del ritiro Zemaniano. Era già un campione, fisico stratosferico e durante gli allenamenti non faceva fatica. Aveva una forza mentale pazzesca e non si riusciva a capire , quando calciava in porta, se fosse destro o sinistro, perché possedeva una straordinaria coordinazione con entrambi i piedi. Già si capiva che sarebbe diventato uno dei calciatori più importanti nelle annate successive. Stessa cosa Alessandro Nesta. Era un giovane non solo dotato fisicamente e tecnicamente, ma con una psicologia superiore rispetto ai suoi coetanei. Aveva 21 anni, ma sembrava un uomo di 30-35 anni. Era un ragazzo già molto maturo”.
L: Come descriverebbe allenatori come Zeman e Zoff?
P: “Completamente diversi uno dall’altro. Con Dino Zoff ho avuto un rapporto meraviglioso, con l’altro ho avuto qualche difficoltà in più”.
L: Successivamente c’è il trasferimento al Napoli. Una stagione purtroppo amara per tutta la squadra. Cosa non funzionò in quell’annata?
P: “Arrivai a Napoli in un periodo difficile in cui, purtroppo, successivamente vi furono anche il fallimento e varie retrocessioni. Ci furono situazioni complicate. Una stagione nata male, con cambi continui di allenatori e calciatori. Mi capitava di spogliarmi con un compagno e la mattina successiva ne trovavo un altro. E’impossibile così creare e amalgamare un gruppo. Ma nonostante la stagione amara dal punto di vista sportivo, ho un bel ricordo di qualche anno dopo. Quando smisi di giocare, andai allo stadio del Livorno per l’Unicef, a vedere un Livorno-Napoli. Dalla zona dei tifosi del Napoli è partito un coro nei miei confronti e questo mi dimostrò che la gente aveva capito che quell’anno diedi comunque tutto quello che avevo”.
L: Tra Livorno e Napoli ha giocato insieme ad Allegri. Si notava, già ai tempi, che potesse diventare un grande allenatore?
P: “Assolutamente No. Avrei pensato tutto di Massimiliano, ma non che diventasse un grande allenatore. Ci siamo conosciuti giovanissimi, avevamo 18 anni al Livorno. Era un calciatore forte e si vedeva che avrebbe potuto fare una carriera importante. Diciamo che mentalmente, ai tempi, non era maturo, come quando smise di giocare. Questo aumenta ancora di più i suoi meriti. Si è costruito e ha capito dagli errori fatti in precedenza. Probabilmente ha pagato da calciatore, ma ha trasferito quella maturità poi nel ruolo di allenatore”.
L: Reggiana in B. Cosa ha significato per lei questo trasferimento?
P: “Andai a Reggio venendo via dalla Lazio. Riuscì a costruire un bel rapporto con i compagni e con la città, anche se la lasciai dopo soli 8 mesi. Nel frattempo avevo già maturato l’idea e lo avevo sempre detto, di tornare a giocare a Livorno e chiudere lì la mia carriera”.
L: È vero che lei ha rinunciato ad un contratto da 1 Miliardo di Lire, per tornare a giocare nel Livorno?
P: Non ho rinunciato ad 1 Miliardo di Lire. Avevo questo contratto per l’anno successivo con la Reggiana, ma accettai dal Livorno una proposta da 320 Milioni di Lire”.
L: Cosa ha significato questo ritorno a Livorno dopo 11 anni?
P: “Fu la realizzazione di un mio desiderio. Quando andai via da Livorno dissi, anche ai tifosi, che un giorno sarei tornato a dare una mano. Quando tornai, la squadra non era riuscita a togliersi dalle secche della Serie C. Il mio obiettivo era riportare il Livorno in Serie B e ci riuscì nel 2002. Successivamente disputai il mio primo campionato di Serie B con la maglia amaranto e vinsi la classifica cannonieri anche in B, dopo averla vinta in Serie A e in Serie C. Credevo potesse bastare e pensai di smettere. Ma poi cambiarono le cose con gli arrivi di Cristiano Lucarelli, Walter Mazzarri e con la conferma di molti miei compagni, che mi convinsero, insieme al Presidente Spinelli a continuare a giocare e quell’anno riuscimmo addirittura a conquistare la promozione in Serie A, cosa alla quale non avevo mai pensato”.
L: Quanto sono stati importanti tecnici come Mazzarri e Donadoni, nella risalita del Livorno?
P: “Furono molto importanti, così come Osvaldo Jaconi, che fu protagonista della promozione in Serie B. In quegli anni abbiamo avuto la fortuna di avere allenatori molto bravi, ma anche loro hanno avuto la fortuna di trovare nello spogliatoio, un gruppo di uomini veri e che si erano legati tra di loro e alla causa amaranto. Giocavano come se la partita fosse una missione, per soddisfare aspettative esterne. Ci siamo dati reciprocamente tanto tra calciatori e allenatori. Poi le carriere di Mazzarri e Donadoni parlano chiaramente e loro sono tra gli allenatori più importanti in circolazione”.
L: Come descriverebbe dal punto di vista umano e tecnico Cristiano Lucarelli e Marco Amelia?
P: “Loro provenivano da due storie diverse. Cristiano era già da diversi anni un calciatore affermato, Marco usciva dal settore giovanile della Roma e doveva fare ancora esperienza. Con Cristiano il rapporto è stato di grande affetto e abbiamo condiviso la stessa passione per la maglia del Livorno. In campo giocavamo nello stesso ruolo , ci cercavamo e ci completavamo. Ancora oggi c’è un rapporto di grande amicizia, esattamente come con Marco, il quale dimostrò di mantenere alte le aspettative, vincendo il Mondiale del 2006, in Germania, con l’Italia”.
L: Cosa ricorda della stagione della promozione del Livorno in Serie A?
P: “Ricordo un campionato lunghissimo con 24 squadre, perché l’anno precedente il Catania retrocesse e poi fece ricorso e ripescarono tutte e 4 le squadre retrocesse. Giocai 46 partite su 46 a 36 anni. In quel campionato c’erano squadre come Napoli,Fiorentina, Torino, Atalanta, Cagliari, Genoa, Verona, squadre che avrebbero fatto parte della Serie A negli anni successivi con continuità. Noi venimmo promossi vincendo a Piacenza la nostra partita, davanti a 10000 spettatori e alla fine arrivò la matematica promozione con la sconfitta della Fiorentina a Catania”.
L: Che ricordo ha dell’ultima stagione di carriera, che coincise con la promozione del Livorno, in Serie A, dopo 55 anni?
P: “Mi tolsi la soddisfazione di giocare un altro campionato di Serie A, da capitano del Livorno. Ricordo una partenza difficile, ma alla fine arrivammo 8° in coabitazione con il Messina. Fu un campionato straordinario, pensando che il Livorno mancava dalla Serie A da 55 anni. Per me è stato il coronamento di una lunga carriera, con gioie e delusioni, ma questo è il calcio, esattamente come la vita. Va affrontato così, con momenti belli e delusioni”.
L: Lei è stato, insieme a Hubner, capace di ottenere il titolo di Capocannoniere in tutte le categorie. Va fiero di questo traguardo?
P: “Ne sono molto fiero. Sentivo spesso i tifosi parlare di attaccante di categorie, che poteva giocare solo in C, solo in B, solo in A ecc. E’ vero che più si sale di categoria, più i difensori sono bravi e atleticamente più preparati, ma le dimensioni della porta sono quelle e i tuoi compagni sono sempre più bravi e sono capaci di farti arrivare bene la palla con i tempi giusti. E’ una questione più mentale che tecnica, almeno in parte”.
L: Nel 2010 partecipò alla Coppa Mediterraneo, con la Nazionale di Beach Soccer, aggiudicandosi la competizione. Che ricordi ha di questo successo?
P: “Giocammo a Barletta. Facemmo questa tappa con Maurizio Iorio, che già aveva provato a convincermi in precedenza. Vincemmo quella tappa del tour e fu una bella esperienza, anche se purtroppo a causa delle mie caviglie è impossibile pensare , oggi, di fare anche solo una corsettina sulla sabbia”.
L: Cosa ne pensa lei di Roberto Valentino come comico e imitatore? Tra l’altro avete presenziato insieme al Gran Galà del calcio, presso Salina
P: “Roberto è un grande. Ovviamente lo conoscevo di nome e l’ho conosciuto di persona a Salina, in occasione della premiazione del Museo del calcio di quella località. E’ stato una piacevolissima sorpresa dal punto di vista umano. E’ un ragazzo veramente molto empatico e siamo entrati immediatamente in simpatia. Lui è un vero fuoriclasse delle imitazioni, anche se gli ho detto che se vuole essere il migliore deve imparare a fare anche la mia, perché non è semplice”.
L: Quali consigli darebbe a giovani che vogliono avvicinarsi al mondo del calcio?
P: “Avvicinatevi al mondo del calcio con passione, con spirito di sacrificio e con senso di appartenenza alla maglia che indossate. L’ultima cosa che dovete pensare è che il calcio sia un mezzo per fare soldi facili. Fate fatica e divertitevi, perché indipendentemente dalla categoria, se lo fai con passione, puoi divertiti a tutti i livelli. Non c’è bisogno di arrivare in Serie A, ci si può divertire anche facendo una partita tra amici”.
Ringrazio Igor Protti per la grande cordialità e la massima disponibilità.