di Luca Meringolo
Come si è avvicinato al calcio Renato Copparoni e chi era il suo idolo da bambino?
C: “Mi sono avvicinato al calcio perché negli anni 60 non c’erano tanti giochi e diversivi dopo la scuola. Ho iniziato a giocare nelle squadre dell’oratorio, in porta. Successivamente feci anche l’attaccante, ma tornai dopo un paio di anni in porta, anche perché il ruolo mi affascinava e il mio idolo era Albertosi, che all’epoca giocava nella Fiorentina. Giocai nella squadra del mio paese, la Monreale di San Gavino, finché non venni notato dal Cagliari e da Mario Tiddia. Feci buona impressione e mi convocò ad un provino con il Cagliari sotto Scopigno e il tutto andò bene, per essere un ragazzino di 16 anni e mezzo”.
Cagliari-Torino, 13 maggio 1973. Cosa si ricorda del giorno del suo debutto in Serie A?
C: “Cominciai nella primavera del Cagliari e disputai il torneo di Sanremo. Poi ebbi la fortuna di iniziare, nella stagione 1969/70, a fare la panchina ad Albertosi, mio idolo, con il quale ho avuto la possibilità di parlare e di confrontarmi. Ricordo che Reginato si fece male e il terzo portiere dell’epoca non aveva firmato il contratto. Quindi io per 2 gare di Coppa Italia venni convocato da Scopigno ed entrai nella grande squadra che conquistò al termine della stagione lo Scudetto. Devo ringraziare molto Mario Tiddia e l’allenatore Boldizsàr (ex portiere ungherese), i quali hanno creduto molto in me ai tempi della primavera e mi formarono a livello fisico. Feci tutta la gavetta delle nazionali giovanili e fui convocato nella Nazionale Olimpica con Bernardini allenatore. Debuttai in A contro il Torino, che mi aveva seguito fin da ragazzo. Non mi aspettavo di giocare, anche perché Albertosi stava recuperando da una botta alla mano, ma invece non ci riuscì. Così, Fabbri mi lanciò e fu un’emozione incredibile: giocare in casa il giorno del debutto è fantastico. Tutti i compagni (Riva, Tomasini, Albertosi e gli altri) mi fecero sentire veramente uno di loro. Vincemmo 1-0 e andò tutto per il meglio”.
Com’è stato avere come “maestri” due grandi portieri come Albertosi e Reginato?
C: “Reginato mi ha dato tanto nel modo di vivere e di comportarmi nella vita. Ricordo che io e lui eravamo insieme in camera e mi dava tanti consigli. Ho cercato di carpire tutti i segreti di Albertosi. Lo guardavo molto durante gli allenamenti: fu un grande. Lui mi motivava a diventare un calciatore di Serie A. Diceva che ero il suo erede, oltre ad essere il portiere più forte tra i giovani in Italia. Cercavo di imitarlo, anche perché dal punto di vista tecnico era il migliore. Nemmeno Zoff, stilisticamente, era paragonabile a lui”.
Com’è stato giocare con un gradissimo attaccante come Gigi Riva?
C. “È stato una palestra. Ricordo che quando ci si fermava a fine allenamento, lui era l’ultimo ad andar via. Tirava delle botte incredibili con palloni di pelle molto più pesanti di quelli plastificati e leggeri di adesso. Riva aveva grande personalità. Quando alzava lo sguardo, tutti erano attenti. Quando le cose andavano male lui ne soffriva più degli altri, perché ci teneva veramente tanto. Se non faceva goal notavi il suo malumore, ma quando segnava, la settimana dopo in allenamento era uno spettacolo. Una persona che non andava mai oltre le righe e questo mi ha dato una mano nell’indicarmi il modo migliore di comportarsi”.
Cosa le ha insegnato un allenatore come Scopigno?
C: “Scopigno ci ha insegnato a gestire lo spogliatoio. Lui non parlava molto, ma era in grado di fulminarti con lo sguardo. Responsabilizzava molto i calciatori, senza farli pedinare, come invece succedeva all’epoca. Per lui contava solo il campo, quello parlava”.
Estate 1978, decide di passare al Torino. Come mai questa scelta?
C. “Non scelsi di passare al Torino. Due anni prima Radice voleva portarmi con sé quando passò al Torino e vinse lo scudetto, ma il Cagliari non mi cedette. Stavo bene in Sardegna, ma per motivi economici il Cagliari finì per vendermi al Torino. Il Torino pagò 400 milioni di lire e così il Cagliari poté mettere un po’ a posto il bilancio, anche perché la squadra rossoblu era in cattive acque in quell’anno. Ricordo che io e i miei compagni rimanemmo 5 mesi senza stipendio. Alcuni volevano mettere in mora la società, io no e poi Riva convinse gli altri a non procedere. Al Torino rimasi 9 anni e feci il secondo a Terraneo e Martina. Anche se all’epoca volevo andare via e giocare, ma a quei tempi non c’era l’articolo 91 che permetteva di fare i contratti in scadenza. Eri proprietà della società, e la società decideva”.
Durante il periodo al Torino, lei si è dedicato agli studi in Scienze Politiche. Come mai questa scelta?
C: “Perché in quel periodo tranne i miei compagni non conoscevo nessuno della città. Loro erano sposati e io non potevo avere gli stessi interessi dei diciottenni dell’epoca, visto che avevo già 26 anni. Decisi di riprendere a studiare e quando andai all’Università trovai un amico e cominciammo a studiare insieme. Lui si laureò sei mesi prima di me, anche perché era più avanti di me, che ero sempre impegnato con gli allenamenti. Il 15 dicembre 1983, tra l’altro giorno del compleanno di mio padre mi laureai. Lui mi disse che fu il più bel regalo che gli feci”.
Quel Torino era costituito dal blocco dello scudetto 1975/76 e nel corso degli anni da altri grandi campioni. Come mai per lei non è arrivato almeno un altro scudetto?
C: “Siamo sempre arrivati nelle prime 4. Purtroppo, il calcio è fatto di episodi. Nell’anno dello scudetto del Verona, perdemmo 2-1 in casa contro di loro. Meritavamo di vincere quella partita, ma quei punti hanno pesato sulla classifica finale e a loro sono valsi la vittoria del campionato. Oggi se arrivi nelle prime 4, ti qualifichi in Champions League, quindi significa essere nell’alta classifica, cosa che noi in quegli anni facevamo. La squadra era buona e avevamo un grande presidente, Sergio Rossi, ma c’era stato anche Pianelli. In quegli anni il Torino era in difficoltà economica e vennero messi tanti soldi e la squadra venne ricostruita”.
Lei il 2 marzo del 1986 si rende protagonista di un record. È il primo portiere della Serie A a neutralizzare un calcio di rigore calciato da Maradona. Cosa ricorda di quel giorno?
C: “Qualche giorno fa c’è stata la ricorrenza. È come una data di nascita, impossibile da dimenticare, un’esperienza bellissima. In quel momento non me ne resi conto, anche perché stavamo perdendo 3-1. Poi però nello spogliatoio ne presi coscienza e Radice mi disse che nessuno avrebbe potuto togliermi questo riconoscimento. Se ne parla ancora a 37 anni di distanza. Ci fu una preparazione mentale più che un gesto tecnico. Vidi che Maradona, qualche giornata prima, aveva spiazzato Zenga dal dischetto, il quale si era tuffato prima del tempo. Io decisi di rimanere fermo. Feci un leggero passo in avanti, senza fare indicazioni. Calciò la palla sulla mia destra e riuscii ad intuirla, deviandola in calcio d’angolo. Ricordo ancora che per 10 secondi lo stadio restò completamente ammutolito. Maradona non aveva ancora segnato quel giorno e si aspettavano tutti il suo gol. Poi nel tunnel ci incrociammo e lui mi fece i complimenti per la parata. Qualche anno dopo ebbi vedute diverse con Radice. Lasciai il Torino, mi trasferì al Verona e lì chiusi la mia carriera”.
Com’è cambiato il ruolo del portiere rispetto ai suoi tempi?
C: “È cambiato in modo radicale. Prima al portiere veniva chiesto di parare e di non far entrare il pallone in porta. Poi, oltre a parare bisognava cominciare a coprire l’area e ad uscire dalla porta. Oggi si gioca anche la palla con i piedi e devi avviare l’azione d’attacco. Tutto questo ha creato difficoltà maggiori. Tutti possono sbagliare i passaggi, anche il portiere se gioca tanti palloni. Basta vedere cos’è successo, poverino, a Radu lo scorso anno. Un attimo di esitazione può costare caro. Se sbaglia il portiere al 99% è goal, se sbaglia un difensore, c’è sempre il portiere che può recuperare”.
Quale consiglio darebbe ai giovani che vogliono avvicinarsi al mondo del calcio?
C: “Devono seguire delle scuole calcio. Ai tempi si giocava nei cortili e nelle strade, ma servono bravi educatori qualificati per i ragazzi. Serve insegnare la tecnica che è fondamentale. Oggi, fin da piccoli, si predilige la tattica e gli schemi. Bisogna giocare con la passione e con altri valori dello sport. Più che ai bambini, bisogna insegnare ai genitori”.
Successivamente diventa allenatore e il preparatore. Come cambia la vita a stare dall’altra parte della barricata?
“Il preparatore deve trasferire conoscenze ed esperienze che ha maturato nel corso della carriera. Il portiere è un ruolo in cui la psicologia conta molto. Nell’area di rigore egli, spesso, resta da solo, così come quando sbaglia. Serve grande forza d’animo interiore per dimenticare l’errore commesso. Io sono stato alla Lazio quando c’era Cragnotti come Presidente. Ricordo che mi occupai del settore giovanile per quattro anni. Lavorai anche con Zoff in prima squadra quando Zeman venne esonerato e lui venne nominato allenatore. Poi io e Mimmo Caso facemmo altre esperienze al Foggia e al Chievo, finché non tornammo alla Lazio nel primo anno dell’era Lotito. Poi divenni allenatore della Nuorese in C2. Oggi ho una scuola calcio chiamata Italpiombo. Questo nome deriva dalla prima società sportiva del mio paese negli anni 30, nella quale mio padre era dirigente. In suo onore abbiamo creato una nuova squadra con il vecchio nome. Siamo affiliati con l’Accademy del Cagliari e abbiamo dato loro anche 5 ragazzi”.
Parliamo un po’ di Roberto Valentino, lei cosa ne pensa di lui come artista e persona?
C: “Non lo conoscevo. Poi un giorno ci siamo sentiti e ho capito che è un ragazzo eccezionale. Ho scoperto una persona veramente in gamba. È molto divertente in quello che fa. Spesso mi chiama e imita le voci di Riva e di Zoff. Ho avuto il piacere anche di conoscerlo dal vivo ed è una bella persona, è anche un bravo professionista e lo dimostra quando rifà i campionati virtuali”.